In Marriage Story sembra non ci sia bisogno neanche di un’ambientazione, solo di una camera spoglia. I personaggi sono definiti, palpabili, veri. Ogni scena porta con sé un fardello emotivo enorme, a volte fatto di piccoli gesti e sguardi fissi, altre di parole urlate e sottintesi. Mi ha spezzato più volte con estrema dolcezza, spesso in quegli attimi silenziosi difficili da afferrare. Ma i non detti, si sa, fanno rumore.
Esiste una pratica orientale usata soprattutto nella meditazione che consiste nel concentrarsi su ogni parte del corpo partendo dai piedi. Sembra un esercizio banale e sciocco, ma in realtà permette di prendere consapevolezza di sé, di uscire dalle proprie abitudini e focalizzarsi su cose che diamo per scontate. Dalle unghie dei piedi ai lobi delle orecchie. J’ai perdu mon corps mi ha trasmesso questa semplice e fondamentale sensazione, trascinandomi in una sequenza delicata e poetica di esperienze sensoriali che spesso prescindono da un senso logico.
The Irishman è una visione lenta, studiata, faticosa, è come vedere un tramonto che stenta a svanire. Un tramonto di rara e malinconica bellezza.
Quella che all’apparenza sembra una commedia nera si trasforma in una violenta critica sociale fatta di sangue e risate amare. La regia di Bong Joon-ho indugia su ciò che è scomodo, ponendo l’attenzione su un’insanabile lotta di classe e andando oltre i confini di ciò che crediamo di sapere.
Short Term 12 è un racconto onesto e delicato su quanto sia difficile imparare a convivere con i propri demoni, e su quanto sia importante guardarli in faccia.