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Sex education 4

Elisa

Servendosi di un’estetica accattivante e canzoni azzeccate, Sex education negli anni si è fatta portavoce di informazioni precise e racconti adolescenziali sfaccettati. Ha mostrato con estrema concretezza la vergogna, l’ha estirpata proprio mostrandola. Ha creato discorsi da portare fuori dallo schermo, ha cercato di includere sempre più identità nel racconto. Finché quest’ultima scelta, già dalla terza stagione, ha cominciato ad evidenziare dei limiti.

Ad un certo punto, infatti, i personaggi sono diventati troppi. Alcuni sono finiti per assomigliare a delle figurine, conosciuti per un unico aspetto e presenti soltanto per riempire delle caselle di inclusività. Con altri, invece, sono stati costruiti degli archi ben delineati e in grado di scavallare qualunque stereotipo. Spesso questo è accaduto, non a caso, con quelli presenti fin dall’inizio (in particolare Aimee e Adam). È come se la serie si fosse trovata al centro di una contraddizione, di un desiderio di inclusione che a volte ha provocato l’effetto contrario. E, nell’ultima stagione, a me è sembrato che tutto ciò sia stato in qualche modo messo in scena.

Quando Otis e i suoi amici si trovano a dover frequentare una nuova scuola, questa viene presentata come un’oasi felice di accettazione reciproca. Carrellate di iniziative positive, sorrisi, spazi aperti di condivisione. Un luogo che presto, però, verrà smascherato nelle sue criticità. Quelle che, in effetti, appartengono alla serie stessa. Un tentativo di inclusione che può generare esclusione, che rischia di relegare personaggi a macchiette. E penso sia interessante che sul finale si sia creato, inconsapevolmente o meno, una sorta di specchio tra il prodotto e il suo racconto.

C’è da dire, però, che Sex education è riuscita a creare spazi nuovi all’interno di una serie teen molto popolare. E non è poco. Ma se volete vedere quegli stessi spazi gestiti meglio, vi consiglio la recente e bellissima Heartbreak High. Lì sì che si tiene insieme coralità e profondità.

Comments

  1. Sono d’accordo sui limiti – ormai diventati evidenti – di questa serie. Non a caso, credo, ho apprezzato di più la seconda parte di questa stagione (dal ritorno di Maeve in poi) perché mi è sembrata più in continuità con le stagioni precedenti. Certo, è stato comunque interessante vedere come Maeve si fosse ambientata in America (anche perché ci fa capire meglio la sua decisione finale) ma tutto il filone relativo al college super “inclusivo”, ai nuovi personaggi e alla sfida tra Otis e “O” a mio parere poteva essere gestito meglio.

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