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Miniserie

Normal People

Elisa

Normal People, la miniserie tratta dal romanzo di Sally Rooney, rivela in dodici brevi puntate il fortissimo e complesso legame fra Connell e Marianne, le loro difficoltà individuali, il loro amore. È il racconto di due solitudini, due solitudini che si appartengono.

La chimica tra Daisy Edgar Jones e Paul Mescal fa quasi impressione. Si muovono all’unisono per poi distaccarsi come se fossero due estranei, si cercano e si respingono donando ai loro personaggi uno spessore sorprendente che grazie alla regia viene esaltato ancora di più. Il tocco di Lenny Abrahamson e Hettie MacDonald infatti, il loro sguardo complice nel raccontare la storia nata dalla mente di qualcun altro, è ciò che rende Normal People di una bellezza lampante. Molte scelte stilistiche, come i primissimi piani, riempiono tutti i vuoti creati da una sceneggiatura essenziale. Gli occhi grandi di Marianne, la fronte corrugata di Connell, le loro mani, il loro respiro affannato, le canzoni malinconiche, i paesaggi sfocati. Tutto combacia, tutto si incastra. Perfino la freddezza dei dialoghi scritti da Rooney trova il suo senso.

Connell e Marianne sono due giovani insicuri, figli di un tempo in cui l’ansia regna sovrana e le relazioni ne risentono. Le loro paure più profonde fungono da freni, sono come dei parafulmini anche quando il pericolo non c’è. E questo è snervante e doloroso, ma così veritiero. Quante volte la nostra generazione ha vissuto di facciate, quante volte la solitudine ha colpito duramente quelli che non si sentivano normali, quelli che non si adeguavano. Quante volte un ventenne oggi fa fatica a volersi bene, ad accettarsi. Normal people dà voce a questi tormenti, li ricrea descrivendone i gesti tipici e le inevitabili conseguenze. Ma mostra anche che le connessioni tra le persone, quelle scintille di luce che ti fanno sentire al posto giusto nel momento giusto, esistono davvero. E che un giorno il desiderio di essere normali svanirà per sempre.

La scena a cui ripenso più spesso è quella sulle note di Hide and seek, nella prima puntata. Riassume il continuo rincorrersi dei protagonisti, il contatto esplosivo e il distacco netto che rappresenta l’elettricità dell’intera storia, e allo stesso tempo mi ricorda un tempo lontano in cui quella canzone era nel mio mp3 e la me stessa adolescente iniziava a trovare nei film risposte e sicurezze inaspettate. Nel corso degli anni, naturalmente, le esperienze si sono moltiplicate e le emozioni ridotte perché come recita Ethan Hawke in Boyhood, “quando cresci non provi più tante cose, ti viene la pelle dura”. Oggi però, grazie a Normal People, posso dire di aver provato di nuovo quella felicità sconfinata e rassicurante di scoprire nell’arte un pezzo di me.

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