I miei racconti

Euforia controllata

Aveva un succo di frutta in una mano e un orecchio nell’altra. Non rideva, guardava fuori dal finestrino. Non era abbastanza grande per appoggiare i piedi a terra, ma aveva un posto tutto per sé. Era silenzioso. Aveva gli occhi scuri come la pelle e una maglietta verde chiaro. Suo padre gli era seduto accanto, con la camicia sbottonata e un libro sulle gambe. Due persone semplici, gente qualunque su un treno affollato. Alla fermata salì un ragazzo sui vent’anni, arrivò di corsa a prendersi l’unico posto libero, proprio di fronte a loro. Intanto il bambino aveva finito il succo e non guardava più fuori, guardava suo padre. C’era nei suoi occhi quell’ammirazione tipica dei bambini, quell’amore incondizionato che non ha niente a che fare con i compromessi. All’improvviso il padre si girò verso suo figlio, e lui cominciò a ridere. Il bambino era riuscito ad avere la sua attenzione e adesso poteva anche tornare a guardare fuori. In quell’attimo non era successo proprio niente di particolare, scene del genere si vedono tutti i giorni. Eppure qualcosa c’era, altrimenti perché quel ragazzo si alzò di scatto per allontanarsi? Perché scappare di fronte a qualcosa di bello? Iniziò a correre lungo il vagone, con delle inspiegabili lacrime agli occhi e una voglia improvvisa di scendere. Quel ragazzo non aveva un figlio, né un padre assente o sbagliato. Non c’era alcun motivo razionale per comportarsi in quel modo. Eppure era fuori di sé, incredulo di fronte a se stesso. Avrebbe dovuto aspettare altre due fermate, ma scese appena le porte si aprirono. In quei giorni era così confuso riguardo alla sua scelta universitaria, era bombardato dalle parole di amici e parenti e non aveva mai avuto un momento per pensare con la sua testa. Quella scena lo aveva svegliato. Si era visto. E quando ti vedi non c’è niente da fare, capisci tutto senza capire niente. Sei confuso e sollevato allo stesso momento, sai cosa devi fare ma hai così tanta paura di sbagliare che ti trovi bloccato. Come quando prendi una sbandata per qualcuno. Euforia controllata. Arrivò in una stazione sconosciuta, trovò una panchina e rimase lì qualche minuto. Lo sguardo nel vuoto e la testa fra le mani. Mille domande, una sola risposta. Voleva vedere più scene come quella, ogni giorno, in tutto il mondo. Voleva renderlo possibile, voleva aiutare. Voleva vedere il sorriso di quel bambino sul viso di altri bambini. Voleva fare qualcosa, qualsiasi cosa, per strappare un po’ di gioia a chi non aveva avuto la fortuna di nascere in un paese come il suo. Gli sembrava un pensiero banale, ma non si era mai sentito così sicuro. Il giorno dopo disse ai suoi genitori che per il momento non si sarebbe iscritto a nessun corso di laurea. Avrebbe viaggiato, cercando se stesso negli occhi degli altri, trovando la sua strada senza doverla cercare. Un giorno sarebbe tornato, ma non era quello il momento di fermarsi. Rimase all’estero per poco più di un anno. Tornò a casa e si iscrisse a medicina, senza ripensamenti, senza obiezioni. Voleva fare la differenza. Era un medico ormai affermato il giorno in cui incontrò di nuovo quel sorriso e quegli occhi di cioccolato. Stava tenendo una lezione in ospedale e aveva appena fatto una domanda ai suoi studenti. Uno di loro alzò la mano dal fondo della stanza. Il bambino era diventato un uomo, e ovviamente non poteva ricordarsi di lui. Rispose correttamente e tornò a mimetizzarsi fra i suoi compagni. Quel ragazzo gli aveva cambiato la vita, senza saperlo, senza volerlo. Avrebbe voluto correre da lui e dirglielo, ma lo lasciò andare via con gli altri, convinto che quel segreto dovesse rimanere solo nel suo cuore. E in quel sorriso. Si rese conto di quanto anche la sua stessa vita potesse diventare lo specchio per quella di qualcun altro, come era successo a lui quel giorno sul treno. Una scena quotidiana, un banale sorriso, e lui si era improvvisamente visto. Una magia di un attimo, un segreto da non rivelare. Fece uscire tutti gli studenti, guardandoli andare via lungo il corridoio. Ma il ragazzo si girò verso di lui, sorrise e si voltò di nuovo. Forse l’aveva fatto per educazione, forse perché voleva inspiegabilmente fargli vedere ancora quel segreto. Eppure il medico non aveva dubbi, gli occhi di quel ragazzo si stavano specchiando nei suoi. Non avrebbe mai saputo che cosa vide in lui quel ragazzo dalla pelle scura, come lui non saprà mai quanto è stato importante per quell’uomo col camice bianco. Ma la magia di quel momento non poteva mentire, le sensazioni di euforia controllata non sono mai spiegabili. I loro corpi non si incontrarono mai più, ma non potevano essere più vicini. Ormai si vedevano, sempre.

I miei racconti

Rifiorire a gennaio

Fuori pioveva forte e per strada non c’era nessuno. Erano passate le vacanze di Natale e il freddo non creava più l’atmosfera perfetta, era solo freddo. Gli alberi ancora addobbati e le luci della città facevano a gara a chi resisteva di più. Il vento spingeva le decorazioni colorate agli angoli delle strade e aizzava il mare contro gli scogli. Riuscivo a vedere la schiuma delle onde, che appariva e scompariva nell’oscurità della notte. Mio figlio aveva appena chiamato per dirmi che dalle sue parti la pioggia stava diminuendo e che per fortuna non aveva causato danni. Era diventato un bell’uomo mio figlio, alto e con la barba incolta, gli occhi azzurri della madre e le labbra sottili. Viveva da qualche anno assieme a una ragazza inglese, si erano conosciuti durante un viaggio all’estero e si erano innamorati come solo i giovani sanno fare, promettendosi tutto senza sapere niente. Anch’io e sua madre ci eravamo innamorati così, e ancora più inconsapevolmente avevamo deciso di sposarci e amarci per sempre. Lei era una donna bellissima, affabile e testarda. Spesso mi dava ragione solo per farmi stare zitto, e altre volte si arrabbiava perché non parlavo abbastanza. Era una continua contraddizione, l’amavo alla follia. Fu il mare a portarmela via. Era un giorno d’estate, le nuvole in cielo non sembravano minacciose e la nostra barca a vela si destreggiava bene fra le onde. Successe tutto molto velocemente, il mare cominciò ad agitarsi e il cielo a scurirsi, e quelle onde che fino a poco prima ci cullavano finirono per travolgerci. Non avevo neanche avuto il tempo di rendermene conto, un momento lei era lì accanto a me e quello dopo era scomparsa. Persa per sempre. Io invece mi ero salvato, se così si può dire. Erano passati sei anni da quel giorno, ma certe cose non passano mai. Si era fatto tardi, finalmente aveva smesso di piovere e all’orizzonte il mare iniziava a confondersi con il cielo. Incontrai mia moglie in un sogno, eravamo giovani e felici, tanto che al mio risveglio non avevo perso quella serenità trovata nella notte. Stavo preparando l’acqua per il tè quando suonò il campanello. Sulla porta c’erano mio figlio e la sua ragazza, lui aveva il suo solito sorriso sghembo e lei sembrava completarlo. Ridevano come bambini e non riuscivano a mettere insieme due parole. Ma l’acqua stava bollendo e io dovevo fare colazione, così li invitai a entrare. A quel punto lei mi afferrò la mano e la posò sulla sua pancia, mi guardò dritto negli occhi e poi si girò verso mio figlio. Era incinta, sarei diventato nonno. Ora eravamo in tre a ridere senza controllo. Volevo piangere e volevo ridere, e probabilmente stavo facendo entrambe le cose. Non ci potevo credere, una nuova vita era in attesa di dare un senso alla mia.

I miei racconti

Colorare gli spazi vuoti

Mancavano due settimane a Natale e due bambine con gli occhi scuri quel giorno diventarono compagne di banco. Era forse quella l’unica cosa simile che avevano: gli occhi. Una era attenta e seguiva la maestra scrivere numeri sulla lavagna, l’altra guardava fuori dalla finestra. Ogni studente aveva sul banco delle forme geometriche di legno, erano tutte colorate e il loro compito era trovare il modo di inserirle in una scatola, incastrandole senza lasciare spazi vuoti. La bambina dai capelli biondi, quella attenta, cominciò subito a sistemare i rettangoli. Non lasciava neanche una fessura tra uno e l’altro e subito dopo si accorse che poteva incastrare facilmente anche i quadrati; la sua vicina di banco continuava a guardare fuori. Altri bambini cominciarono dai cerchi, i più difficili. Altri mettevano le figure in disordine per riempire la scatola e finire al più presto. Mancavano solo dieci minuti e la bambina distratta fece un salto sulla sedia. Era tardi, come al solito si era persa a guardare un fiocco di neve qualsiasi invece di concentrarsi. Guardò le forme, guardò la scatola e capì subito che qualcosa non andava, non potevano inserirsi bene tutti, alcuni pezzi dovevano restare fuori, alcuni colori non potevano stare nella sua scatola. Quindi iniziò a sistemare alcune forme e lasciò fuori le altre. L’altra bambina però aveva finito e sul suo banco non era rimasto niente. Si guardarono, occhi scuri e capelli opposti, cuori vicini e teste diverse. «Devi lasciare dei buchi, i buchi sono importanti se vuoi avere tutti i colori» «Ma poi la maestra si arrabbia, lei ha detto che bisogna riempire tutto» «Fidati di me, è l’unico modo» La bambina distratta non riusciva a capire, per un attimo tornò a guardare fuori. La sua nuova amica le aveva appena insegnato che i buchi erano indispensabili per avere tutti i colori, mentre lei preferiva lasciare fuori delle figure che vedere degli spazi vuoti. Ma doveva esserci un’altra soluzione. Un pennarello rosso cadde per terra, la bambina bionda lo raccolse e quando rialzò lo sguardo la sua compagna di banco la stava guardando entusiasta. Avevano appena avuto la stessa idea: iniziarono a colorare con i pennarelli tutti i buchi fra i cerchi e i rettangoli e crearono una scatola perfettamente riempita usando più colori di quanti ne avessero a disposizione. Quel giorno di dicembre impararono che le regole erano importanti, ma se volevano seguirle alla perfezione o lasciavano fuori qualcosa o creavano degli spazi vuoti. E l’unico modo per avere tutti i colori era colorare i buchi. Non ci sarebbero mai arrivate senza aiutarsi, una avrebbe rinunciato ai colori e l’altra non sarebbe riuscita a riempire la scatola. Solo insieme si può avere tutto. Solo insieme possiamo aggiustarci.

I miei racconti

Inadeguatezza

Si muovono in un modo che non comprendi sembrano parlare altre lingue, la loro complicità è inaccessibile. Entri in un discorso cogli il momento, ma il momento passa prima che tu te ne accorga. Le loro parole escono come un filo cadono leggere da una bocca all’altra senza mai annodarsi. E tu invano cerchi di afferrarle, ma non sarai mai un’estremità.

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Connessi a luci spente

La gente stava arrivando da ogni angolo, riempiendo il parco fino a farlo scoppiare. Persone diverse con la stessa espressione, vite parallele unite dalla musica. Erano tutti in cerca di qualcosa, convinti di poterla trovare proprio quella notte. Avevano la faccia di chi spera, di chi crede, anche se non sa ancora in cosa. Lei ballava da sola, gli occhi socchiusi, le mani in alto. Lui si scatenava assieme ai suoi amici, cantava stonando, rideva. Il concerto era iniziato da poco più di un’ora ed erano entrambi impazienti di ascoltare la loro canzone preferita, quella per cui erano lì. La stessa. I Lumineers la suonarono per ultima, a luci spente. Nessuno fra il pubblico si permetteva di cantare sopra a quell’unica voce, nessuno parlava, nessuno ballava. Erano tutti fermi, in attesa di risposte che sarebbero arrivate, risposte a domande che neanche immaginavano. Durante il pezzo era nata una strana connessione fra i due, qualcosa li teneva uniti senza dargli modo di girarsi, senza mai lasciare che si scoprissero. Ballarono assieme senza muoversi, si guardarono negli occhi senza vedersi, riuscirono a malapena a respirare. Erano legati a distanza, costretti in un contatto impalpabile. Due incoscienti con i piedi per terra, persi nella storia di qualcun altro. “Dead Sea” parlava di scommettere su un amore, di vivere fianco a fianco per non affondare mai più. Parole improvvisamente chiare, precise, reali. Le conoscevano a memoria, finalmente le catturarono. Un’istantanea raccolse le loro emozioni, reali come dentro a un sogno. Mancava solo una strofa, pochi attimi prima che tutto finisse. Chiusero gli occhi, immobili, connessi a luci spente. Il vento li spinse uno contro l’altro, stesso respiro, stesso battito. La musica scomparve, loro no.