Will Hunting
Will Hunting è stato il primo film che ricordo di aver amato, quello che mi ha poi spinto a ricercare nell’arte delle risposte e delle sicurezze.
Will Hunting è stato il primo film che ricordo di aver amato, quello che mi ha poi spinto a ricercare nell’arte delle risposte e delle sicurezze.
Patricia, citando William Faulkner, si rivolge a Michel e gli dice «Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore» chiedendogli poi: «E tu, cosa sceglieresti?».
Appoggia il bicchiere vuoto sul bancone. I cubetti di ghiaccio tintinnano. In sottofondo, musica di pianoforte. Lei si è alzata ed è uscita dal locale. Sei troppo egoista, ha detto. Non sei in grado di fare qualcosa per gli altri, per i tuoi figli, per me. Poi se n’è andata. Non ha voglia di piangere. Le dita tamburellano sul bicchiere, il ginocchio si alza e si abbassa, rapide contrazioni del polpaccio. Non è questione di giusto o sbagliato, è questione di miopia. Lei vede fino alla punta del proprio naso, lui molto più in là. E più in là ci sono i vantaggi che ciò che ha fatto garantirà a tutti loro, lei compresa. È lì che si trova la sua generosità. E tutti i sacrifici, la casa, i vestiti? aveva ribattuto. Le lezioni di chitarra e il corso di danza? Tutto questo non lo faccio per voi? No, in realtà lo fai per te stesso, mai solo per gli altri, aveva tagliato corto lei. Silenzio. Il chiacchiericcio prende il sopravvento sugli altri rumori, poi il pianista attacca con un’altra canzone. Il ghiaccio nel bicchiere si è sciolto. Butta giù in un sorso quel fondo tiepido, il retrogusto di Martini si sente appena. Il fatto è: tutti fanno le cose solo per se stessi. Poi, a volte, fanno del bene anche agli altri. Ma è un caso. Si alza e, prima di uscire, va verso il pianista. Ha talento, e sente l’esigenza di dirglielo. Lo raggiunge, aspetta che finisca il brano che sta suonando, e gli dice, bravo, sei proprio bravo. Silenzio. Il ragazzo non si gira. Ehi, ho detto a te, sei davvero bravo. Silenzio. Stupito, alza lo sguardo e incontra quello del barman. Muove appena il mento, aggrotta la fronte, e l’altro si batte due volte l’indice sull’orecchio.
Ci sono delle piccole cose che si fanno quando ci si conosce da tanto, anche se sono passati anni. Gesti inconsapevoli che riemergono quando ci si rivede, sguardi d’intesa, parole che assumono un peso diverso. Blue Jay è il ritratto in bianco e nero di tutto questo, accompagnato da qualcosa di doloroso e inafferrabile: un’amara nostalgia. Jim e Amanda si incontrano per caso fra gli scaffali di un supermercato che si ricorda di loro. Sono passati vent’anni dall’ultima volta in cui si sono visti, da quel tempo così lontano in cui erano giovani e innamorati. Sorrisi e silenzio, imbarazzo e stupore. I loro occhi parlano anche se la loro bocca è titubante. E poi, in un battito di ciglia, si ritrovano immersi nei racconti delle loro vite. I ricordi sbiaditi, le promesse spezzate, i progetti disillusi. Pian piano ogni cosa riaffiora. Ed è così realistico il modo in cui accade, perché fra loro c’è un disagio contenuto che sbatte violentemente contro una familiarità tangibile. C’è nei loro sguardi e nelle loro parole la voglia di raccontarsi, di confidarsi e lasciarsi andare. Sono visibilmente frenati, stretti in un contatto che sembra confonderli sempre di più. Finché qualcosa si scioglie. E, fra laboriose fantasie e verità spontanee, Jim e Amanda si perdono in un’emozione più grande di loro.
Si muovono in un modo che non comprendi sembrano parlare altre lingue, la loro complicità è inaccessibile. Entri in un discorso cogli il momento, ma il momento passa prima che tu te ne accorga. Le loro parole escono come un filo cadono leggere da una bocca all’altra senza mai annodarsi. E tu invano cerchi di afferrarle, ma non sarai mai un’estremità.