Chernobyl
Chernobyl non è solo il resoconto dettagliato di un disastro, è anche una denuncia dell’inesorabile voglia da parte del governo russo di insabbiare ogni cosa ancora oggi e di mettere le bugie davanti alla verità.
Dopo aver visto l’ultima puntata mi sono chiesta più volte se la mia insoddisfazione venisse dalla delusione di vedere una bella storia raccontata male o semplicemente dal non accettarne la fine. Forse entrambe le cose.
La terza stagione ritrova l’atmosfera della prima, fatta di silenzi assordanti e lunghe pause, di sguardi penetranti e poche parole. Coinvolge e affascina presentando un intreccio che si sviluppa su più piani e che come punto focale non ha tanto le indagini ma la memoria. Arkansas, anni Ottanta. Due fratelli di 10 e 12 anni, Will e Julie Purcell, un pomeriggio si allontanano da casa in bicicletta e non fanno ritorno per cena. I genitori preoccupati danno l’allarme e il caso viene affidato al detective Hays e al suo partner Roland West che dovranno fin da subito fare i conti con qualcosa di difficile da decifrare. I rimandi a Rust e Marty sono numerosi, ad esempio attraverso le iconiche scene in auto e le lunghe inquadrature dei paesaggi, ma circa dalla metà la serie acquista una bellezza tutta sua e si entra in un altro orizzonte, in cui il caso assume sempre meno importanza e emerge invece la storia di un uomo anziano con un “cervello pieno di pezzi mancanti”. Vediamo la sua vita scandita in tre decenni, lo vediamo giovane e determinato, audace e innamorato, solo e confuso. E osserviamo ogni passaggio attraverso i suoi occhi, in un puzzle fatto di ricordi annebbiati che a volte sembrano schiarirsi e altre portano solo a ragionamenti senza via d’uscita. All’inizio questo continuo salto temporale sembra servire solo a capire lo sviluppo delle indagini, ma col tempo si rivela più che altro un veicolo perfetto per raccontare una vita fatta di sbagli e intuizioni, di amore e integrità, e inesorabilmente segnata da un caso irrisolto. L’interiorità del detective Wayne Hays straborda e attira puntata dopo puntata, ed è la parte più interessante dell’intera storia.
Big Little Lies è composta solo da sette episodi ed è diretta da Jean-Marc Vallée, regista di Dallas Buyers Club e Wild. È una serie in cui i drammi familiari si intrecciano e si moltiplicano, tirando fuori i segreti più intimi di personaggi all’apparenza perfetti. Ogni dettaglio mostra sempre di più il contrasto tra apparenza e realtà, tra facciata e sostanza, tra detto e non detto. Il lato tecnico, dalla fotografia alla colonna sonora, fa da perfetta cornice a una storia in cui prevalgono sceneggiatura e interpretazioni (Alexander Skarsgård sorprendente). La macchina da presa sembra entrare nelle case senza permesso, concedendo allo spettatore un quadro completo che invece sfugge ai personaggi. Una tecnica che attenua i colpi di scena, ma che permette di provare uno sgomento maggiore nel momento in cui tutte le verità verranno rivelate nell’intenso e travolgente episodio finale. La seconda stagione (con l’aggiunta nel cast di Meryl Streep) andrà in onda il prossimo anno.