In Mindhunter c’è una calma apparente che stride con la brutalità della trama, una narrazione lenta in contrasto con la follia omicida. Questa tecnica, resa abilmente anche nella creazione di atmosfere asettiche e musiche azzeccatissime (perfetto l’incipit sulle note di In every dream home a heartache), eleva la serie a qualcosa che non si può definire solamente crime. Ma che è molto, molto di più.
Il debutto alla regia di Noah Baumbach racchiude alla perfezione quella sensazione di nostalgico smarrimento che pervade chi ha appena concluso una fase della sua vita. Anche se i tempi, i vestiti, le musiche sono diverse, quei ragazzi laureati nel ’95 potrebbero benissimo essere quelli di oggi.
Anni 70, musica stupenda e adolescenti qualsiasi. Si intravede già la voglia di Linklater di raccontare più fasi della crescita, in cui le età si mescolano e i punti di vista si moltiplicano. E poi Matthew McConaughey che fa il suo ingresso in scena sulle note di Hurricane di Bob Dylan è spettacolare. Un cult imperdibile.
Phoebe Waller-Bridge è la mente e il corpo di Fleabag e io non smetterò mai di ringraziarla. Con questa seconda e ultima stagione ha acceso quella scintilla di sensibilità solo accennata nella prima e non ha perso neanche per un attimo il brillante umorismo che la contraddistingue.
Chernobyl non è solo il resoconto dettagliato di un disastro, è anche una denuncia dell’inesorabile voglia da parte del governo russo di insabbiare ogni cosa ancora oggi e di mettere le bugie davanti alla verità.