Questo meraviglioso romanzo giapponese, di appena 101 pagine, mi ha stregato. La sua costruzione, così perfetta e calcolata al millimetro, è l’esatto opposto del suo contenuto: l’imperscrutabile animo umano.
Più andavo avanti, più sentivo che qualcosa mi sfuggiva. Più non capivo, più leggevo. Ed è stato solo alla fine, quando sono rimasta a fissare il vuoto, che ho realizzato di non poterlo afferrare. Mi è sembrato di leggere una poesia molto lunga, un insieme di parole perfette che continuavano a evocare qualcosa senza mai spiegarsi davvero. E allo stesso tempo si spiegavano benissimo.
Le sensazioni che si provano leggendo Il fucile da caccia sono forti e confuse e alcuni passaggi, come quello che vi riporto qui sotto, sono così perfetti che fanno venire i brividi:
“Quando giunte alla fine della loro vita, serenamente distese, volgeranno il loro viso al muro della morte, tra la donna che ha goduto appieno della felicità di essere amata e la donna che può dire di avere avuto poche gioie ma di avere amato, a quale delle due Dio vorrà concedere il tranquillo riposo? Ed esiste, in questo mondo, una donna che possa dire davanti a Dio: “Io ho amato” ? Si, sono sicura che esiste. Forse la ragazza dai capelli sottili crescendo è diventata una di quelle poche elette. Avrà magari i capelli in disordine, il corpo segnato dalle ferite, gli abiti a brandelli, ma potrà dire a testa alta, con fierezza: “Io ho amato”. Ed esalare l’ultimo respiro.”
Tags: amore morte narrativa romanzo solitudine