Eterno incespicare

Verso la fine di Le città di pianura, il veneto Doriano, sfatto a casa dei genitori del compare Carlobianchi, esordisce con: “Siamo troppo vecchi per crescere”. Tono scanzonato, malinconia evidente. I due, insieme al giovane Giulio, hanno appena passato la notte in cerca dell’ultimo bicchiere, quello che resta appetibile ad oltranza e dimostra una fallacia nella teoria dell’utilità marginale decrescente. Bramano l’ultimo come se fosse un tesoro, abbaglio che in altre vesti aleggia spesso nei loro discorsi di gioventù perduta, ma sembrano anche felici di non poterlo mai raggiungere. È così che possono continuare a vagare, finendo perfino per fare da mentori inconsapevoli ad uno studente di architettura, un napoletano impacciato che grazie alla loro irriverenza riuscirà a sbloccarsi.

Il film di Francesco Sossai, tra situazioni e toni che attraversa amabilmente, concede di soffermarsi (come farà Giulio davanti ad un dipinto della scuola del Veronese) sulle città di pianura dimenticate, nei quadri perfino eliminate in favore di montagne e laguna. Luoghi diventati territori e non più terre, in cui la vita scorre nell’ombra di una promessa infranta di benessere.

Un paio d’anni fa, ho visto un altro film che fa di questo vagare all’apparenza vuoto il suo nucleo. S’intotola Gigi la legge, è ambientato al confine tra Veneto e Friuli, precisamente a San Michele al Tagliamento, e mostra il quotidiano di un vigile tra lunghi giri in auto e piccoli intoppi da segnalare. Alessandro Comodin lo ritrae con un tocco documentaristico e paradossalmente sognante, ma si nota lo stesso riposizionamento al centro di posti che gli artisti avevano cancellato per capriccio.

La provincia, oltretutto, a volte rimane tale anche quando la abita lo straniero, come accade in We are who we are, girata nella base militare di Chioggia. Nella miniserie di Luca Guadagnino, si parla di mentalità chiusa, di potenziali soffocati e di uno strappo netto per allontanarsi da ciò che non si sente proprio. Come in Le città di pianura, c’è una storia di formazione e nel finale compare un treno da prendere, un po’ diverso da quello di Giulio (più simile forse a quello di Fabietto – Filippo Scotti in È stata la mano di Dio), ma ciò che aggiunge il film di Sossai è un forte controcampo, fatto da chi quel treno lo saluta da lontano.