Quando un film è invaso da grandi aspettative, sento sempre una specie di fatica nell’affrontarlo. Per decidermi a vedere Dune, tra una cosa e l’altra, ci ho messo più di un mese.
Denis Villeneuve, uno dei migliori registi del nostro tempo (Arrival, Enemy), ha portato sullo schermo un nuovo adattamento della prima metà (circa) del primo romanzo di Frank Herbert su Il ciclo di Dune. Nel farlo si è circondato di attori e attrici straordinari, da Timothée Chalamet a Rebecca Ferguson, da Zendaya a Oscar Isaac. Per le musiche ha scelto Hans Zimmer, per la fotografia Greig Fraser. Ha inscatolato un filmone a tutti gli effetti, un colosso che si è portato dietro gli strascichi della pandemia. E, allo stesso tempo, è riuscito a creare un’opera d’arte.
Entro al cinema un venerdì pomeriggio, mi guardo intorno. Siamo in quattro. Il buio della sala mi sembra ancora un sogno, una carezza. La colonna sonora impazza quasi da subito, le vibrazioni mi avvolgono, il mio sguardo si allarga. Sprofondo nella sabbia, riemergo. Mi commuovo senza lacrime, dimentico il mondo. Sono lì, nel caldo soffocante, a incastrare i miei occhi con quelli dei protagonisti. A vederci qualcosa che forse non c’è neanche. La versione di Villeneuve mi è sembrata talmente personale, introspettiva, che in qualche modo me ne ha restituita una tutta mia. Una versione da amare follemente e di cui non fare parola con nessuno, qualcosa da mantenere privato, intatto soltanto dentro di me.
Non potrò mai essere lucida nel parlare di questo film, pur riconoscendone vuoti e criticità. Credo che dovrò soltanto aspettare, nutrendomi dell’attesa brulicante e del groviglio di emozioni vissute, sperando di sprofondarci un’altra volta. Perché, ricordiamocelo, questo è solo l’inizio.
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