Ieri su Sky ho visto The farewell, il film scritto e diretto da Lulu Wang che due anni fa è partito dal Sundance Film Festival e che nel corso del 2020 ha fatto il giro del mondo. È diventato in poco tempo uno degli ombrelli cinematografici sotto cui cercherò rifugio nelle giornate di pioggia (l’ho aggiunto qui).
Billi è una giovane newyorkese di origini cinesi che si destreggia tra la metropoli e le sue aspirazioni. Un giorno scopre che a sua nonna Nai Nai è stato diagnosticato un tumore in fase avanzata e che i suoi familiari hanno deciso di non dirglielo. Farà quindi ritorno in Cina per starle accanto, cercando di capire se questa “bugia buona” sia davvero la cosa migliore.
L’abilità di Lulu Wang si rivela in più forme, marcando la sensazione che dietro a The farewell ci sia un’unica persona, una sola visione. I dialoghi sono spesso stringati e arricchiti da un’inquadratura che parla al loro posto, i silenzi evidenziati dalla musica e i momenti più intensi raffigurati nello spazio con uno studio quasi geometrico – penso soprattutto alla presenza compatta dell’intera famiglia in diverse scene. C’è un bel bilanciamento fra tutti questi elementi, una sorta di completezza in grado di creare tepore e sollievo senza nascondere però l’immensa paura della perdita.
The farewell è accogliente, mite. Mostra tradizioni e particolarità di una famiglia, di una cultura, che si allontana dall’individualismo e che ragiona all’unisono per il bene comune. E mostra anche quanto tutto questo sia tutt’altro che facile.
P.S. Awkwafina spacca.
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