Dopo la vittoria a Berlino per la miglior sceneggiatura, Favolacce dei fratelli D’Innocenzo trionfa anche in patria, portandosi a casa 5 Nastri d’argento.
La favola nera dei gemelli romani si apre con la voce di un narratore esterno che racconta di aver trovato il diario di una bambina e di essersi, con sua sorpresa, appassionato alla lettura. Dopo un piccolo preambolo afferma: « Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata ».
Si avverte dalle prime inquadrature una sorta di disagio dovuto non solo alle parole ma anche alle luci, ai suoni, al susseguirsi di immagini insolite e particolari scomodi. Più ci si addentra nella storia e più questa inquietudine cresce, si staglia nei volti tesi e nei sussurri, si percepisce nel sudore e nei colori caldi così in contrasto con la freddezza dei legami raccontati. Il rapporto tra genitori e figli, tra amici e fratelli, tra conoscenti, ogni relazione ha qualcosa di torbido e malsano che viene accennato ma non del tutto sviscerato, creando confusione e fastidio. C’è nell’aria il sentore di una tragedia incombente e da cui sembra impossibile scappare. D’altronde queste sono favolacce e qualcosa di brutto prima o poi capiterà, lo sapevamo fin da subito no? L’ansia di scoprirlo, la tensione che si crea, è l’essenza lacerante dell’intero film.
Favolacce è un incubo, un tormento continuo da cui vuoi svegliarti ma non ci riesci. Perchè attrae e respinge, mostra e nasconde. Ti trascina in un malessere fatto di inquietudine sospesa, di caldo asfissiante e suoni disturbanti. Il finale lascia sgomenti, perplessi, ma anche profondamente affascinati dalla potenza del buon cinema.
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