Bones and all di Luca Guadagnino è un miracolo cinematografico. Non in senso assoluto, non esiste l’assoluto. Lo è per me. Ha a che fare con ciò che voglio vedere e che non voglio, è un allineamento strano tra la me del momento e l’opera. Non è replicabile, esiste solo il tempo della visione. Di quella visione. E gli strascichi che questi miracoli si portano dietro, i turbamenti non del tutto spiegabili, spesso riguardano proprio quegli assoluti che non esistono.
Stati Uniti, anni ’80. Maren (Taylor Russell) è una giovane cannibale che prova a reprimere la sua natura. Quando questa emerge, però, lo fa in modo incontrollato provocando fughe immediate. Il diverso deve scappare, nascondersi. Ed è così che un giorno Maren, abbandonata dal padre, sarà costretta a partire in cerca di risposte sulla sua identità. Il tortuoso tragitto la porterà a scoprire di non essere l’unica, prima grazie all’incontro col vecchio Sully (Mark Rylance) e poi col coetaneo Lee (Timothée Chalamet). Con quest’ultimo inizierà un viaggio di esplorazione, di crescita, in cui entrambi cercheranno di capirsi – e amarsi – un po’ di più.
DA QUI SPOILER
La metafora del cannibalismo è forte, essenziale. Mangiare l’altro per non perderlo mai. Schivare l’abbandono e alimentare il ricordo, per Sully rappresentato dalle trecce di capelli, è l’unico modo per sopravvivere in una società che trova la loro natura pericolosa e ripugnante.
Guadagnino gioca con le estremità, le accudisce senza eccedere. Quando si osservano i luoghi dell’orrore, l’abisso esiste ed appare irreversibile. Quando si entra in quelli della tenerezza, il resto scompare. L’equilibrio è in pericolo costante, ma non si spezza. E ogni estremità riesce a contenere l’altra.
C’è una scena che ho trovato emblematica, un istante fugace, che mostra la risata distesa di Lee nello specchietto retrovisore dell’auto. È viscerale, perfino sonora, eppure così distante nel suo essere soltanto un riflesso. È la tragedia della solitudine, di chi vive ai margini. Perfino l’amore più puro convive col distacco, superabile infatti solo con l’appropriazione dell’altro, col pasto completo. Perché è chiaro fin dall’inizio che nel mondo non c’è spazio per Lee e Maren. Lo dicono i loro baci affamati, i paesaggi desolati, le musiche profonde di Atticus Ross e Trent Reznor. Il loro è un tentativo folle di essere persone («let’s try to be people»), di rendersi liberi attraverso l’amore. Un’impresa impossibile, fallimentare quando un estremo continua a mangiarsi l’altro. La risposta però, come direbbe Céline in Before sunrise, è proprio nel tentativo. E quindi, in qualche modo, nella ricerca di assoluti che non esistono.
Ho visto questo film una settimana fa al cinema e hai scritto perfettamente quello che ho pensato e sentito quando ho finito di vedere il film sentivo un vuoto in pancia che non mi sembrava vero
Il film bellissimo ma quello che vuole trasmettere far passare ancora di più