Da quando ho visto È stata la mano di Dio queste tre parole continuano a tormentarmi, a scavarmi. Non so bene cosa significhino, non del tutto, ma le sento scorrere e depositarsi dentro di me. A volte penso siano un monito, altre un consiglio da non seguire. Come se sgretolarsi fosse necessario, ma anche qualcosa di rovinoso. Una faglia che si allarga, che si ferma. Un brivido.
Paolo Sorrentino quel brivido l’ha fotografato, cucito. Ha regalato pezzi di sé attraverso la storia di Fabietto, ha proposto prima la commedia e poi la tragedia, ha soppesato con abilità toni soavi e cupi. Ho avuto la sensazione di assistere a due film, uno in cui il protagonista era spettatore e un’altra in cui il suo ruolo era attivo. Il punto di rottura è stato brutale, repentino, il tempo di assestamento sembrava eterno. Lo era. Ogni tanto comparivano siparietti grotteschi, personaggi atipici o situazioni meno poetiche, come a ricordare che la complessità è un requisito fondamentale della vita.
Eppure io, a distanza di settimane dalla visione, ricordo solo quello che importa a me. Come se l’emozione mi avesse stordito e, appunto, disunito. Come se fosse mia, non di Fabietto, non di Sorrentino. (Mi era successo qualcosa di molto simile con Roma di Alfonso Cuarón, un altro capolavoro che ha a che fare con la memoria personale).
Credo quindi che È stata la mano di Dio sia un film infinito, di quelli che proprio non finiscono coi titoli di coda e che anzi si ripercuotono sulla quotidianità, la arricchiscono. D’altronde, “il cinema non serve a niente, però ti distrae”.
P.S. (CON SPOILER)
Nel viso di Fabietto sul finale, fermo sulle note di Napule è di Pino Daniele, io ho visto quello di Elio in Chiamami col tuo nome. Mi è quasi sembrato che i loro sguardi, le loro storie, in qualche modo si incrociassero.
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Ho provato le medesime cose, apprezzo tantissimo quello che fai ♥️