God’s own country è una storia d’amore sofferta e meravigliosa che si fonda su movimenti lievi e impetuosi, su silenzi contemplativi e imbarazzati. La delicata purezza del debutto alla regia di Francis Lee mi ha trascinato in una valle di lacrime, stringendomi a sè in uno strano e fortissimo abbraccio a distanza.
DA QUI SPOILER
Le parole sono contate, pesate, quasi superflue. Il modo in cui i protagonisti si avvicinano e si innamorano è talmente evidente che non ha bisogno di nient’altro oltre ai gesti, al non detto. È come se avessero un dolore sommesso che li lega l’uno all’altro, una connessione intima e indiscutibile che in modi diversi faticano entrambi ad accettare. Sono spaventati, soli, spezzati nel profondo e forse convinti di non meritarsi quel tipo di felicità che appartiene agli altri, quel tipo di amore che rende liberi. E allora si respingono, osano, cadono, fioriscono. Fanno a botte con un sentimento che per Gheorghe è familiare e per Johnny sconosciuto e invadente. Il cambiamento lento di quest’ultimo, il suo scomposto scardinamento di paure radicate, il suo muro che crolla, è qualcosa che mi è sembrato di poter toccare con mano. E, nel finale, vederlo mentre parla a cuore aperto con suo padre, dicendogli che deve andare a riprendersi la sua felicità, il suo cuore, è stato come vedere un vecchio amico uscire da un periodo buio.
E poi gli ultimi quindici minuti di questo film, gli ultimi istanti di un lieto fine che è solo un inizio, sono così belli. Così belli. Per un momento ho sentito un senso di completezza indescrivibile, un annullamento istantaneo di dubbi e insicurezze, di negatività e ansia. Ero solamente lì, con loro, a rubagli un po’ di vita.
P. S. Josh O’Connor, fresco vincitore del Golden Globe per The Crown, è un interprete davvero straordinario.
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