Dopo aver visto Mank ho provato una fitta di nostalgia per la sala cinematografica che non so neanche spiegare, una fitta che covavo da mesi. Mi è mancato il buio accogliente, il silenzio rumoroso del pubblico, il senso di condivisione nel guardare tutti insieme la stessa cosa. L’imponente film di David Fincher vede la luce grazie a Netflix, ma paradossalmente ricorda quanto l’esperienza fisica e tangibile dello sprofondare nella poltrona di un cinema sia impagabile.
Amo follemente il fatto che una piattaforma streaming decida di investire in produzioni di questo tipo, ma ho realizzato che fino ad oggi ho sempre – o quasi – visto gli originali Netflix di questa portata al cinema prima che a casa. Penso ad esempio a Roma di Cuaron. Lo vidi in una sala silenziosissima dopo una giornata difficile, singhiozzando, e mi feci inondare da un trasporto per l’arte che raramente ho sentito, trasporto quasi magico che ho condiviso con degli sconosciuti dopo i titoli di coda. Perchè a volte è l’esperienza a fare la differenza, quasi a prescindere dalla grandezza dell’opera. E, guardando Mank, questa sorta di avventura mancata l’ho sentita moltissimo. Mi è sembrato proprio di perdermi una fetta importante dell’intera storia, della sua bellezza.
Mank, ad ogni modo, è un film notevole grazie al quale ogni cinefilo potrà prendersi due ore per sognare e scoprire qualcosa in più sulla vita di Herman Mankiewicz e la genesi di uno dei pilastri della storia del cinema. C’è molto da dire, per cui dirò molto poco. I miei, ormai l’avrete capito, non sono veri e propri commenti ma flussi di coscienza più o meno strutturati. (Se volete approfondire però, oltre alla visione di Quarto Potere, vi consiglio di leggere questo articolo del Post. Anzi, vi direi di fare entrambe le cose prima di vedere il film).
Per chi ha già visto il film ho pensato di partire da una scena, quella da cui è tratta la frase contenuta nelle immagini. Oltre al fatto che è scritta divinamente, con dei tempi comici calcolati al millimetro, è anche l’emblema secondo me di cosa significa narrare una storia attraverso il cinema: dare l’impressione di riuscire a cogliere l’intera vita di qualcuno in sole due ore. In Mank, proprio come in Quarto Potere, sono i flashback a dare questa impressione, a portarci passo dopo passo dentro il racconto. Anche quando le modalità della narrazione e la durata cambiano però, che siano pellicole da dieci minuti silenziosi o da tre ore di chiassose avventure, la sostanza è la stessa. In qualche modo è come se, guardando Mank, fossi stata in grado di sentire il cuore pulsante di tutti gli altri film, passati e futuri, il loro arduo tentativo di raccontare qualcosa di unico. Per me quindi l’opera di Fincher non è solo un omaggio a ciò che è stato, ma è anche e soprattutto uno sguardo di speranza verso ciò che verrà.
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