Ogni volta che mi approccio a un film sceneggiato da Aaron Sorkin so che a grandi linee troverò due cose: una storia tra verità e finzione raccontata con meticolosità e un cast in grado di sorreggerla. Negli anni è riuscito a attirarmi parlando di poker, di sport, di comunicazione e adesso, portando sullo schermo uno dei processi più famosi di sempre, è riuscito anche a farmi commuovere. Perchè Il processo ai Chicago 7 non è solo un racconto ben congegnato e interpretato, è una presa di posizione.
Chicago, 1968. In seguito a violenti scontri tra manifestanti e polizia durante il Congresso dei democratici, Bobby Seale e sette leader dei gruppi di protesta vengono accusati di istigazione alla sommossa e cospirazione.
Il film, quasi interamente incentrato sul processo, è caratterizzato da una regia pulita e una grande quantità di parole. I dialoghi serrati, spesso ripresi da conversazioni reali, aiutano nel delineare i vari personaggi in superficie, fornendo quei pochi tratti di cui lo spettatore ha bisogno per concentrarsi sull’intreccio e notare gli accenni a temi come il razzismo, la libertà di parola, la violenza. Il cast corale (Sacha Baron Cohen, Joseph Gordon-Levitt, Frank Langella, Eddie Redmayne, Mark Rylance, ecc.), in cui non spicca nessuno ma emergono tutti, è eccezionale e esalta al massimo la scrittura di Sorkin.
Tra fasi in cui le immagini reali si sovrappongono a quelle di finzione e fatti sono più o meno enfatizzati si snoda un film che, pensando all’attuale situazione politica, si carica di un significato più incisivo del semplice resoconto. Diventa un messaggio provocatorio, un monito, un destabilizzatore di coscienze. Mi ha emozionato per la sua enfasi, per la sua ricerca di giustizia e verità, per il modo in cui sferza i suoi colpi senza esitazione. Con Il processo ai Chicago 7 Sorkin ha preso un pezzo di storia e ne ha fatto qualcosa di più.
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