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Film

Burning

Elisa

Dal racconto di Haruki Murakami Granai incendiati nasce Burning di Lee Chang-dong, uno dei film più belli dell’anno.

Burning si sviluppa su più piani di lettura, in superficie è un ottimo thriller che brucia a combustione lenta ma più si scava e più si possono scoprire molteplici sfumature, dalla rappresentazione di un’abissale solitudine che ruota intorno a i tre protagonisti alla creazione di allegorie che sono solo il risultato dell’ossessione di voler trovare un senso a ogni cosa, a ogni costo.

Il regista ci guida proprio come fa Murakami coi suoi romanzi, portandoci in mondi incomprensibili e affascinanti che forse non abbiamo bisogno di capire del tutto. Ciò che vediamo esiste solo in relazione a Jong-su. I nostri occhi sono i suoi, e la telecamera ce lo ricorda più volte mostrandoci soggettive nei momenti più disparati. Vediamo le cose così da vicino che diventano inafferrabili, tanto da farci dubitare della loro autenticità. D’altronde proprio all’inizio del film Hae-mi, che si sta esercitando con le pantomime, spiega a Jong-su che il suo trucco per farle al meglio è questo: “Non devi sforzarti di immaginare che quella cosa ci sia. Devi piuttosto smettere di pensare che non ci sia”. E la trama dell’intera storia probabilmente è tutta in queste parole.

Le immagini che costruisce Lee Chang-dong sono così potenti e ipnotiche che sembra di esserci dentro, di sentire sulla pelle i brividi di Jong-su quando inizia a sospettare di Ben o quel vuoto che pervade la giovane Hae-mi mentre danza alla luce del tramonto. Lei che in quei movimenti lenti sta cercando il senso della vita e allo stesso tempo vorrebbe non esistere più. Lei che brucia, e noi con lei.

Burning evoca turbamenti inesprimibili a parole, creando di continuo significati che sfuggono ma che si percepiscono più forti che mai. Mi ha destabilizzato non sapere cosa stessi provando, come se non ne avessi il minimo controllo. Era tutto più grande di me, così confuso eppure così palpabile. Immenso, un film immenso.

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