La seconda stagione di Mindhunter scorre su due binari paralleli: gli studi e gli interrogatori volti a creare la figura del profiler e le indagini concrete del momento ispirate a fatti reali. A questi si mescolano le vite private dei vari personaggi, creando un intreccio fitto e ricco di tensione.
Se nella prima stagione l’attenzione era quasi tutta sugli incontri con questi famigerati serial killer, qui vediamo sempre di più l’efficacia della psicologia comportamentale nel risolvere casi difficili che altrimenti continuerebbero a ripiegarsi su se stessi. La svolta in questo senso è segnata dall’arrivo all’FBI di un nuovo capo dell’unità che darà fiducia e supporto a Holden e Tench impiegandoli direttamente sul campo, anche se l’azione non sarà mai il motore della serie.
Come in altri lavori di David Fincher, penso in particolare a Seven e Zodiac, è il sottinteso a fare paura. Non si vedono mai le scene degli omicidi se non nelle foto, ci vengono mostrati momenti precedenti e successivi ai crimini senza darcene le prove. Questo permette di porre attenzione solo sulle parole, favorendo una tensione profonda e costante che si avverte ma non si tocca.
In Mindhunter c’è una calma apparente che stride con la brutalità della trama, una narrazione lenta in contrasto con la follia omicida. Questa tecnica, resa abilmente anche nella creazione di atmosfere asettiche e musiche azzeccatissime (perfetto l’incipit sulle note di In every dream home a heartache), eleva la serie a qualcosa che non si può definire solamente crime. Ma che è molto, molto di più.
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