La terza stagione ritrova l’atmosfera della prima, fatta di silenzi assordanti e lunghe pause, di sguardi penetranti e poche parole. Coinvolge e affascina presentando un intreccio che si sviluppa su più piani e che come punto focale non ha tanto le indagini ma la memoria.
Arkansas, anni Ottanta. Due fratelli di 10 e 12 anni, Will e Julie Purcell, un pomeriggio si allontanano da casa in bicicletta e non fanno ritorno per cena. I genitori preoccupati danno l’allarme e il caso viene affidato al detective Hays e al suo partner Roland West che dovranno fin da subito fare i conti con qualcosa di difficile da decifrare.
I rimandi a Rust e Marty sono numerosi, ad esempio attraverso le iconiche scene in auto e le lunghe inquadrature dei paesaggi, ma circa dalla metà la serie acquista una bellezza tutta sua e si entra in un altro orizzonte, in cui il caso assume sempre meno importanza e emerge invece la storia di un uomo anziano con un “cervello pieno di pezzi mancanti”. Vediamo la sua vita scandita in tre decenni, lo vediamo giovane e determinato, audace e innamorato, solo e confuso. E osserviamo ogni passaggio attraverso i suoi occhi, in un puzzle fatto di ricordi annebbiati che a volte sembrano schiarirsi e altre portano solo a ragionamenti senza via d’uscita. All’inizio questo continuo salto temporale sembra servire solo a capire lo sviluppo delle indagini, ma col tempo si rivela più che altro un veicolo perfetto per raccontare una vita fatta di sbagli e intuizioni, di amore e integrità, e inesorabilmente segnata da un caso irrisolto.
L’interiorità del detective Wayne Hays straborda e attira puntata dopo puntata, ed è la parte più interessante dell’intera storia.
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