Elegante e sensuale, schiva e appassionata. La storia di Beth Harmon, la sua forza magnetica, è così ben tratteggiata da sembrare reale. Anya Taylor-Joy risplende tenendo su di sè tutto il peso della narrazione, dimostrandosi allo stesso tempo felina e fragile e conferendo al suo personaggio un’attrattiva indiscussa. Ne consegue una miniserie che, aiutata da ottime scelte anche sul piano sonoro, risulta elettrizzante anche per chi come me non ha mai conosciuto da vicino il mondo degli scacchi.
DA QUI IN POI SPOILER
Il pilot è una bomba. Un lungo e dettagliato flashback ci rivela l’infanzia travagliata di Beth, il dolore che ha subito dovuto affrontare dopo la perdita della madre, la sua personalità riservata, l’intelligenza evidente. La cupezza dei toni è consistente, ma le vie di fuga per un futuro migliore si palesano fin dall’inizio, a partire naturalmente dalla propensione di Beth per gli scacchi. Nel corso delle puntate assisteremo a momenti più o meno drammatici in cui si parla di identità e di dipendenze, di ossessione e legami. Il tutto caratterizzato da un ritmo acceso dai contrasti, da quel bianco e nero che domina la scacchiera.
Il climax che regge La regina degli scacchi, l’avvicinamento al traguardo, naturalmente non è rappresentato solo dalla conquista del titolo più ambito di tutti ma coincide con la crescita del personaggio. In particolare la vittoria di Beth sta nel diventare parte di un gruppo, nel credere in se stessa ma anche negli altri. L’episodio finale, quello in cui i suoi amici e compagni di viaggio la aiutano a prepararsi per la grande sfida, dimostra quanto la condivisione di una passione sia fondamentale per poterla vivere fino in fondo e che da soli non si va da nessuna parte. Ci sarebbero altri interessanti temi di cui parlare, il binomio genio – follia, la rabbia che stimola e distrugge, l’amore che sfocia in ossessione. Ma a dire la verità c’è anche qualcos’altro che mi ha colpito, una lettura della storia forse meno positiva di quella che vede nel momento di gioia finale il senso del racconto.
Beth non è solo mente, è prima di tutto corpo. Occhi, capelli, labbra, è sensuale e sa di esserlo. L’unica altra giocatrice che si vede, la russa che compete però solo nel campionato femminile, è inquadrata per pochi istanti mentre ha lo sguardo basso. A lei non è concesso giocare coi maschi. Una delle poche altre donne giovani che compaiono è una modella non abbastanza intelligente per fare qualcos’altro ma bella abbastanza per essere invitata dagli altri a partecipare alle feste. L’amica d’infanzia di Beth si vede solo in relazione a Beth e non è mai parte del gruppo.
Ovviamente ci sono degli appunti da fare: Russia e America non sono la stessa cosa, il periodo storico non è il nostro, la narrazione non è una sola. Ma non è forse vero che l’aspetto di Beth, il fascino che esercita sugli uomini, gioca un ruolo fondamentale nella sua scalata al successo (oltre alla sua bravura)? Non so, forse è una riflessione senza appigli, ma ve la butto lì lo stesso.
Ad ogni modo mi è sembrato di cogliere in Beth una donna connotata unicamente da uno sguardo maschile, anche e soprattutto quando nessuno la vede, e guardando le stories di Marina Pierri ho avuto la conferma che le mie sensazioni fossero fondate (le trovate sul suo profilo IG e vi consiglio di recuperarle, il suo lavoro è prezioso). Proprio per questo però, per la profondità di pensiero che comporta, La regina degli scacchi è uno dei prodotti Netflix più interessanti degli ultimi tempi.
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